terzo trasportato: il fatto umano rientra nel caso fortuito che libera l’assicuratore del vettore

Con la sentenza 13 febbraio 2019, n. 4147, la Cassazione ha preso posizione in merito all’azione diretta del terzo trasportato, che sia rimasto danneggiato in un sinistro stradale, nei confronti dell’assicuratore del vettore/veicolo su cui si trovava al momento dell’incidente.

Ricordiamo che l’art. 141 d.lgs. 209/2005, prevede che:

1. Salva l’ipotesi di sinistro cagionato da caso fortuito, il danno subito dal terzo trasportato è risarcito dall’impresa di assicurazione del veicolo sul quale era a bordo al momento del sinistro entro il massimale minimo di legge, fermo restando quanto previsto all’articolo 140, a prescindere dall’accertamento della responsabilità dei conducenti dei veicoli coinvolti nel sinistro, fermo il diritto al risarcimento dell’eventuale maggior danno nei confronti dell’impresa di assicurazione del responsabile civile, se il veicolo di quest’ultimo è coperto per un massimale superiore a quello minimo.

2. Per ottenere il risarcimento il terzo trasportato promuove nei confronti dell’impresa di assicurazione del veicolo sul quale era a bordo al momento del sinistro la procedura di risarcimento prevista dall’articolo 148.

3. L’azione diretta avente ad oggetto il risarcimento è esercitata nei confronti dell’impresa di assicurazione del veicolo sul quale il danneggiato era a bordo al momento del sinistro nei termini di cui all’articolo 145. L’impresa di assicurazione del responsabile civile può intervenire nel giudizio e può estromettere l’impresa di assicurazione del veicolo, riconoscendo la responsabilità del proprio assicurato. Si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni del capo IV.

4. L’impresa di assicurazione che ha effettuato il pagamento ha diritto di rivalsa nei confronti dell’impresa di assicurazione del responsabile civile nei limiti ed alle condizioni previste dall’articolo 150“.

Come sottolineato dai commentatori e dalla giurisprudenza di merito, tale disposizione prevede un favor nei confronti del terzo danneggiato, dandogli infatti modo di procedere direttamente nei confronti dell’assicuratrice della vettura su cui viaggiava. Questo favor ha una duplice declinazione, che facilita l’esercizio dell’azione: a) evita che il terzo danneggiato debba raccogliere le informazioni dagli altri veicoli coinvolti nel sinistro, potendo limitarsi a raccogliere – con molto più facilità – i dati dell’auto su cui si trovava al momento dell’impatto; b) il terzo danneggiato deve semplicemente dimostrare l’accadimento, mentre è esonerato dalla dimostrazione di chi sia il responsabile dell’accaduto.

Alla stregua di tale favor, pressoché tutti i commentatori e moltissimi giudici di merito avevano però concluso che la responsabilità dell’assicuratore del veicolo su cui il terzo è trasportato sia di natura oggettiva. E giustificano tale conclusione adducendo proprio il favor che il legislatore ha voluto riconoscere al terzo trasportato.

Tuttavia, tale lettura incontra un duplice limite, semantico e sistemico. Infatti, l’incipit della norma in commento prevede espressamente la clausola liberatoria del caso fortuito.

I sostenitori della tesi qui criticata, non potendo evidentemente non prendere atto del testo della norma, ne hanno dato una lettura particolarmente restrittiva, adducendo che nel caso fortuito rientrerebbe solamente un fatto naturale non prevedibile né evitabile. Tale interpretazione – avvallata come detto in molti casi giudiziali – si scontra tuttavia con un evidente limite, costituito dalla doppia circostanza che essa legge “forza maggiore” laddove invece la norma scrive “caso fortuito”, che nell’ordinamento italiano ricomprende pacificamente anche il fatto umano del terzo.

Già in un intervento del febbraio 2016, chi scrive aveva avuto modo di osservare che questa interpretazione restrittiva appare come una forzatura ermeneutica, che non trova ragion d’essere nella struttura giuridica dell’art. 141, né giustificazione o sistemazione logica in seno all’ordinamento giuridico. 
In realtà, che l’art. 141 debba intendersi come presunzione di (co-)responsabilità, con ciò facendo esattamente il paio con l’art. 2054 c.c. e istituendo per evidente conseguenza la solidarietà nei confronti del terzo trasportato, lo si evince dall’espressione “a prescindere dall’accertamento della responsabilità dei conducenti”. 

L’interpretazione più lineare di tale locuzione (e quella più sostenibile vista la sua coesistenza con la clausola liberatoria) è quella di liberare il terzo trasportato dall’onere di provare la colpa del vettore per ottenere il risarcimento dal suo assicuratore. Ma, esattamente come in ogni caso di responsabilità oggettiva e/o presunta, all’obbligato è data la possibilità di liberarsi qualora l’evento si sia verificato per un fatto esterno alla sua sfera di controllo. Tanto che, per l’appunto, l’incipit dell’art. 141 fa “salva l’ipotesi di sinistro cagionato da caso fortuito”, inserendo una clausola liberatoria che testimonia la natura presuntiva (dalla quale potersi dunque liberare) della responsabilità dell’assicuratore del vettore. 

Ora, non v’è ragione alcuna di ritenere che, in tutto il sistema giuridico, solamente nell’art. 141 d.lgs. 209/2005 il caso fortuito, ossia ciò che non rientra nella sfera di controllo del soggetto presunto responsabile, non ricomprenda anche il fatto umano del terzo (di cui il responsabile non debba rispondere). Ciò sarebbe contraddittorio, nello specifico con l’art. 2054 C.C., e in generale coi principi dell’ordinamento, traibili ad esempio dagli artt. 1227 e 2055 c.c. o dagli artt. 2051, 2048 e 2049 C.C. così come applicati anche in sede giudiziale. 

E la contraddittorietà la si desume anche dalla circostanza che quella dottrina, pur accomunata nell’escludere il fatto umano del terzo dal caso fortuito dell’art. 141, si divide invece nell’individuazione del fatto umano rientrante o meno in tale esclusione: c‘è chi ricomprende solo il fatto del terzo conducente, chi anche del terzo non alla guida come ad esempio il pedone, chi infine anche quello del terzo custode (es: gestore o proprietario della strada). 

D’altro canto, come la Corte costituzionale ha avuto modo di stabilire, l’art. 141 si affianca al rimedio generale dell’art. 144: sicché il terzo trasportato, che non abbia ottenuto il risarcimento dall’assicuratore del vettore in virtù della clausola liberatoria, potrà senz’altro ottenere soddisfazione con l’azione diretta verso l’assicuratore del responsabile civile ove non operi giuridicamente la presunzione solidale dell’art. 141. 

La ragionevolezza e linearità di tale interpretazione ha trovato ora avvallo nella sentenza di legittimità, che consente all’assicuratore del vettore di dare la prova liberatoria, ossia di dimostrare l’assenza di un pur  minimo profilo di responsabilità anche solo concorsuale del proprio assicurato nella causazione del sinistro:

“L’art. 141 d.lgs. n. 209/2005, in conseguenza del riferimento al caso fortuito – nella giuridica accezione inclusiva di condotte umane – come limite all’obbligo risarcitorio dell’assicuratore del vettore verso il trasportato danneggiato nel sinistro, richiede che il vettore sia almeno corresponsabile del sinistro quale presupposto della condanna risarcitoria del suo assicuratore; una volta accertato l’an della responsabilità del vettore, non occorre accertare quale sia la misura di responsabilità dei conducenti dei veicoli coinvolti, dovendo comunque l’assicuratore del vettore risarcire in toto il trasportato, salva eventuale rivalsa verso l’assicuratore di altro corresponsabile o di altri corresponsabili della causazione del sinistro.”

E ancora:

“In tema di risarcimento del danno da circolazione stradale, l’azione conferita dall’art. 141 d.lgs. 209/2005 al terzo trasportato, nei confronti dell’assicuratore del vettore, postula l’accertamento della corresponsabilità di quest’ultimo, dovendosi riferire la “salvezza del caso fortuito”, di cui all’inciso iniziale della norma, non solo alle cause naturali, ma anche alla condotta umana del conducente di altro veicolo coinvolto; la relativa presunzione di legge può,tuttavia, essere superata dalla prova, a carico dell’assicuratore del vettore, della totale assenza di responsabilità del proprio assicurato, ovvero dalla dichiarazione, resa ai sensi dell’art. 141, comma terzo, dall’assicuratore del responsabile civile intervenuto nel processo, a fronte della quale il giudice è tenuto ad estromettere l’originario convenuto, rivolgendosi “ex lege” la domanda risarcitoria dell’attore verso l’assicuratore intervenuto.”
Insomma,  la lettura corretta della norma non può prescindere dal richiamo al caso fortuito, che viene scelto dal legislatore come parametro del bilanciamento degli interessi tra il trasportato e l’assicuratore del vettore. Il fortuitus casus, ivi richiamato, è il tradizionale concetto giuridico ormai pacifico da anni e non già una fattispecie che esclude le condotte umane – compresa quella del danneggiato – come vorrebbero i sostenitori dell’interpretazione criticata e oggi smentita dai giudici di legittimità. Se il legislatore avesse inteso stravolgere tale consolidato concetto, lo avrebbe fatto ex professo.

funzionamento e liceità della liberalizzazione e aggiornamento del RUI

 Con la sentenza n. 4/2020 pubblicata il 02.01.2020, il Tribunale di Trento è intervenuto sulla c.d. liberalizzazione del portafoglio: un istituto poco frequentato nelle aule giudiziali, ma che ricopre un’importanza diffusa e rilevante nel mercato assicurativo e nei rapporti tra compagnie preponenti e agenti di assicurazione.

La pronuncia in esame si pone, dunque, come un precedente in grado di affiancare e avvallare la consueta prassi, invalsa da decenni nel settore, dandole crisma d’applicazione giurisprudenziale: sia sotto il profilo della sua definizione e legittimità; sia sotto il profilo della ridefinizione dei rapporti (e quindi dei diritti e degli obblighi) tra impresa e intermediario successivamente alla sottoscrizione dell’accordo di liberalizzazione.

L’importanza della sentenza è dovuta anche al fatto che il Tribunale di Trento è territorialmente competente per uno dei maggiori gruppi assicurativi italiani (nonché il primo per fondazione): sicché l’arresto in commento è potenzialmente destinato a creare un precedente anche per gli altri fori che, al pari di quello tridentino, siano per collocazione territoriale vocati a conoscere con più frequenza di tale materia e più in generale di diritto delle assicurazioni.

La definizione.

Quanto alla definizione di liberalizzazione, il Tribunale di Trento così puntualizza:

Vale premettere che la liberalizzazione deve intendersi quale un accordo tra la compagnia assicurativa e l’ex agente, in forza del quale le parti convengono di sostituire le indennità di fine rapporto con la possibilità di quest’ultimo di mantenere la gestione ordinaria delle polizze, trasferendo alla scadenza concordata i contratti assicurativi ad una nuova compagnia  (…).

 In particolare giova rammentare che con la liberalizzazione del portafoglio aziendale il preponente cede all’agente gli affari rinunciando ai vantaggi economici che ne sarebbero derivati, laddove l’agente ottiene la possibilità di trasferire i contratti dallo stesso gestiti presso un’altra compagnia assicurativa, rinunciando alla indennità di risoluzione del rapporto previste dall’art. 1751 c.c. e dall’ANA 2003.

L’art. 1751 c.c. prevede un sistema indennitario, che vede come presupposto l’impossibilità dell’agente di continuare a lucrare provvigioni sugli affari che rimangano del preponente, stante la cessazione del rapporto agenziale; di talché è evidente che in tale ipotesi le indennità costituiscono un corrispettivo economico a fronte della cessione dei contratti da parte dall’agente ed in favore della preponente all’atto della cessazione del mandato.

Diversamente, nella fattispecie in esame, l’intervenuta liberalizzazione consentendo all’agente di mantenere i guadagni provvigionali, costituisce una alternativa alle indennità previste dall’ANA 2003”.

Più nello specifico, optando per la liberalizzazione del portafoglio, l’intermediario cessa di essere

agente, rinunciando nel contempo definitivamente alle indennità di fine rapporto, come previsto dall’art. 12 Ter co. 1, 3 e 4 dell’Accordo Nazionale Agenti 2007”.

Naturalmente ci si è interrogati, soprattutto in dottrina, sulla liceità di una deroga all’art. 1751 c.c. A riguardo, per brevità è opportuno ricordare:

  1. che la deroga è sempre possibile e lecita laddove sia di miglior favore per l’agente – posizione oramai unanime tra gli interpreti
  2. che l’art. 1751 c.c., con specifico riferimento agli agenti di assicurazione, trova applicazione solo dove non vi siano apposite previsioni – il tutto, in virtù dell’art. 1753 c.c.

Questo secondo assunto – va dato atto – è criticato da parte della dottrina che si occupa di contratto di agenzia; ma è ritenuto assodato e legittimo per chi si occupa più nello specifico degli agenti di assicurazione, i cui connotati – sia economici sia sociali sia imprenditoriali – li distinguono dagli agenti di commercio, tanto che sono stati recepiti a livello normativo sia dal legislatore italiano (fra l’altro per l’appunto, con l’art. 1743 c.c.) che dal legislatore comunitario (direttiva 86/653/CEE; cfr. Corte di Giustizia CE, ordinanza 2003/C146/21).

Il Tribunale di Trento, pur succintamente e incidenter tantum, in merito alla liberalizzazione ha statuito che la

legittimità è stata riconosciuta da Cass. nn. 18203/2002 e 10853/2000, nonché da Trib. Milano n. 12129/2005, secondo cui “è meritevole di tutela, in quanto migliorativo, l’accordo di liberalizzazione del portafoglio agenziale assicurativo, disciplinato per la prima volta dalla contrattazione collettiva del 2003, in forza del quale l’agente rinuncia alle indennità di risoluzione del rapporto in cambio della facoltà di trasferire i contratti ad altra compagnia più redditizia, conseguendo così lo scopo principale dell’accordo, cioè il recupero della redditività dell’agenzia”.

In definitiva, l’atto di liberalizzazione costituisce un patto con il quale – per accordo tra le parti o su richiesta dell’agente – quest’ultimo scambia l’indennità di fine rapporto con la gestione temporanea delle polizze con lo scopo di trasferirle alla sua nuova preponente: la scommessa imprenditoriale consiste nella possibilità di mantenere con sé gli assicurati, appoggiandoli sulla nuova mandante, e continuando a lucrare le provvigioni su quei contratti che (senza liberalizzazione) sarebbero rimasti alla ex preponente.

I nuovi rapporti tra compagnia e intermediario e l’aggiornamento del Registro Unico Intermediari

Ci si può chiedere, allora, se l’accordo di liberalizzazione, per il periodo della sua durata, mantenga in essere un rapporto agenziale tra compagnia e intermediario, visto che quest’ultimo prosegue, seppure temporaneamente, nella gestione delle polizze dell’ormai ex preponente. Sul punto – come vedremo – l’Accordo Nazionale Agenti è decisamente chiaro.

E tuttavia vale la pena riportare la parte di sentenza che si occupa di questo aspetto; e che risponde alla lamentela dell’ex agente, il quale riteneva non corretto che, una volta siglato l’accordo di liberalizzazione, la compagnia avesse comunicato all’Ivass (per la conseguente pubblicazione sul Registro Unico Intermediari) che egli non era più suo agente.

A chi scrive è noto che non poche compagnie comunicano all’Ivass che l’intermediario ha cessato di operare come loro agente solo dopo la cessazione della liberalizzazione. E tuttavia, dato testuale alla mano, va ritenuta più corretta la prassi di quelle compagnie, tra cui quella protagonista della sentenza, che danno questa comunicazione all’Ivass sin dall’inizio della liberalizzazione.

Dello stesso parere è anche il giudicante che, alla luce di quanto espressamente previsto dall’Accordo Nazionale Agenti incluso il suo allegato A, ha così deciso:

Né appare condivisibile l’affermazione di parte attorea, secondo cui “E’ notorio che durante il periodo di liberalizzazione l’Agente continua ad essere considerato tale a tutti gli effetti…” (v. pag. 12 atto di citazione).

Invero, giova rammentare che la liberalizzazione presuppone l’intervenuta cessazione dal rapporto agenziale, come si evince dall’art. 12 ter ANA, il quale al co. 1 recita: “…. ferma restando l’efficacia del recesso, l’agente potrà scegliere tra il pagamento degli indennizzi e la liberalizzazione del portafoglio gestito dall’agenzia…”, prevedendo il co. 3 che “l’impresa… consente all’agente cessato, nel rispetto degli assicurati, di trasferire ad altre imprese i contratti di assicurazione in carico all’agenzia alla data di cessazione del rapporto”.

A ciò si aggiunga che l’art, 2 del modello di accordo di liberalizzazione di cui all’allegato A prevede che “Il rapporto di agenzia di cui in premessa è risolto dalla data in cui il presente accordo sottoscritto dall’agente è pervenuto all’impresa ai sensi del III comma dell’art. 12 Ter ANA 2003, e comunque non oltre il 30 ° giorno dalla comunicazione del recesso, come previsto dal I comma dell’art. 12 Ter ANA 2003”.

D’altro canto il rapporto che si instaura a seguito dell’accordo di liberalizzazione non può essere qualificato come agenziale in quanto ai sensi dell’art. 4 all. A “Durante il suddetto periodo l’agente non potrà stipulare nuove polizze, né concludere affari e incrementare quelli esistenti, e comunque non potrà svolgere alcuna attività promozionale diretta o indiretta per conto dell’impresa” (v. anche art. 3 Accordo di liberalizzazione).

Da ultimo, e appare dirimente sul punto l’art. 17 all. A stabilisce che “Il rapporto tra agente e impresa inerente il presente accordo di liberalizzazione non è assoggettato né all’ANA 2003 né agli artt. 1742 -1752 del codice civile”, con ciò escludendo espressamente l’attività agenziale, così come definita dall’art. 1741 c.c. e dall’art. 106 Cod. Ass.”

In sostanza, sotto il regime della liberalizzazione l’intermediario incaricato ha il solo compito di gestire le polizze sino alla prima scadenza di premio (annuale o rateale): a quel momento, l’assicurato potrà scegliere tra la disdetta della polizza con sottoscrizione di una nuova presso la nuova preponente dell’intermediario, e la conferma della polizza col vecchio assicuratore (nel qual caso verrà assegnato ad altro agente). L’intermediario, durante la liberalizzazione, non può invece rinnovare le polizze né stipularne di nuove per conto dell’ex preponente.

Non svolge dunque le attività tipiche dell’agente per l’ex compagnia, e pertanto l’aggiornamento del RUI andrà fatto più correttamente proprio all’inizio della liberalizzazione.

Danno biologico di lieve entità, presupposti di risarcibilità: la Cassazione torna sull’argomento

 

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Con ordinanza n. 22066 dd. 11.09.2018 la Suprema Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi su un tema assai dibattuto in materia di danno biologico c.d. di lieve entità e, in particolare, sui limiti di applicazione delle previsioni contenute nell’art. 32, commi 3ter e 3quater del d.l. n. 1/2012, convertito in legge n. 27/2012. Prima di passare all’analisi di tale pronuncia, si ritiene opportuno affrontare un breve excursus del travagliato percorso legislativo, interpretativo ed applicativo delle succitate norme. Come noto, le disposizioni in commento prevedono quanto segue:

3- ter. Al comma 2 dell’articolo 139 del codice delle assicurazioni private di cui al decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, è aggiunto, in fine, il seguente periodo: ” In ogni caso, le lesioni di lieve entità, che non siano suscettibili di accertamento clinico strumentale obiettivo, non potranno dar luogo a risarcimento per danno biologico permanente“.

3- quater. Il danno alla persona per lesioni di lieve entità di cui all’articolo 139 del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, è risarcito solo a seguito di riscontro medico legale da cui risulti visivamente o strumentalmente accertata l’esistenza della lesione.

Le norme, che certa parte della dottrina riconduce ad un piano di applicazione più processuale (ritenendole relative in senso stretto alla prova del danno di cui si chiede ristoro) che sostanziale, furono accompagnate sin dalla fase di elaborazione legislativa da alcune annotazioni che, pur estremamente succinte, ne coglievano possibili profili di criticità. Lo stesso Servizio Studi della Camera dei Deputati non mancava di osservare quanto segue:

Al riguardo si ritiene opportuno un chiarimento della portata delle disposizioni, considerando che le due norme presentano un campo di applicazione comune, ma sembrano contenere profili contradditori. Infatti, mentre il comma 3- ter esclude il risarcimento del danno biologico “ permanente” nel caso in cui le lesioni non siano suscettibili di “accertamento clinico strumentale obiettivo”, il comma 3- quater ammette il risarcimento (senza specificare se a titolo di danno biologico permanente o temporaneo) qualora vi sia un riscontro medico legale da cui risulti “ visivamente” o strumentalmente accertata l’esistenza della lesione.

 

Criticità applicative ed interpretative che portavano financo ad investire la Corte Costituzionale della questione di legittimità delle norme in commento, in relazione specificamente agli articoli 3, 24 e 32 della Costituzione: il possibile vulnus veniva individuato per quei «piccoli danni che non possono essere oggetto di riscontri diagnostici strumentali, bensì solo di un giudizio medico di plausibilità ed attendibilità, senza possibilità […] di una conferma strumentale». Con ordinanza n. 242/2015, dunque, la Corte facendo seguito alla precedente sentenza n. 235/2014 dichiarava manifestamente infondata la questione e fissava alcuni principi importanti, chiarendo sempre dalla prospettiva della legittimità costituzionale come, da un lato, la necessità di un riscontro strumentale dovesse essere esclusa per i danni temporanei e richiesta solo per quelli a carattere permanente e, dall’altro, come:

la limitazione imposta al correlativo accertamento (che sarebbe altrimenti sottoposto ad una discrezionalità eccessiva, con rischio di estensione a postumi invalidanti inesistenti o enfatizzati) è stata, infatti, già ritenuta rispondente a criteri di ragionevolezza, in termini di bilanciamento, «in un sistema, come quello vigente, di responsabilità civile per la circolazione dei veicoli obbligatoriamente assicurata, in cui le compagnie assicuratrici, concorrendo ex lege al Fondo di garanzia per le vittime della strada, perseguono anche fini solidaristici, e nel quale l’interesse risarcitorio particolare del danneggiato deve comunque misurarsi con quello, generale e sociale, degli assicurati ad avere un livello accettabile e sostenibile dei premi assicurativi».

In tale contesto i Tribunali di legittimità hanno, seppur con qualche voce discordante, assunto una posizione che pare ben riassunta nella sentenza dd. 08.01.2015 del Tribunale di Bologna. È quindi stato osservato che:

Secondo la migliore scienza medico-legale, vi è evidenza visiva o strumentale di un danno anatomico, in tutti quei casi in cui, anche in assenza di reperti visivi o strumentali, l’analisi medico-legale porta comunque a ritenere “evidente” il ricorrere di una patologia traumatica; tale evidenza non sussiste quando le mere allegazioni di soggettività e/o le prime certificazioni redatte a distanza di tempo dal sinistro, al vaglio medico-legale risultano non compatibili con quel sinistro, attestando lesioni che la violenza dell’urto, per la sua irrisorietà, non può giustificare.

Si può concludere quindi che, ove l’analisi medico-legale di cui sopra riscontri positivamente la lesione denunciata, l’accertamento della lesione del bene salute e dei pregiudizi consequenziali non è presunto sulla base di mera sintomatologia soggettiva, ma è verificato obiettivamente in contraddittorio tra tutte le parti ed i loro consulenti, non lasciando spazio a facili narrazioni e/o simulazioni da parte della (falsa) vittima.

Nello stesso solco, il Tribunale di Ascoli Piceno ha recentemente (sentenza dd. 14.11.2017) statuito che:

In altri termini, la novella in esame ha inteso chiarire che la lesione alla salute può essere provata – anche mediante presunzioni, in base alle ordinarie norme codicistiche – “visivamente o strumentalmente“, non essendo più ammissibile desumere tale prova soltanto dalla sintomatologia della vittima. In altri termini si è stabilita la regola per cui la presunzione fornita in giudizio è grave e precisa allorché sia stata accertata la lesione alla salute visivamente o strumentalmente.

Per tale via, dunque, secondo la migliore scienza medico legale, vi è evidenza visiva o strumentale di un danno fisico allorché – anche in assenza di reperti visivi o strumentali, l’analisi medico-legale porta comunque a ritenere ” evidente” il ricorrere di una patologia traumatica.

Ad avviso dello scrivente, le succitate pronunce vanno incontro a profili di criticità che, va evidenziato, sono il portato di una formulazione legislativa tutt’altro che cristallina. In primo luogo, si ritiene che con la succitata sentenza il Tribunale di Bologna abbia confuso due piani in realtà ben distinti, e cioè da un lato l’«evidenza visiva o strumentale» richiesta per l’accertamento del danno biologico e dall’altro la compatibilità di tale danno con l’evento dedotto in causa. Quest’ultimo profilo, infatti, attiene in prima battuta la sussistenza di un nesso causale tra il danno e il fatto e non già, quindi, l’accertamento e la successiva conseguente valutazione di quel danno.

In secondo luogo, entrambe le succitate pronunce pongono sul medesimo piano i criteri scientifici di accertamento clinico-strumentale-visivo, attingendo indifferentemente e senza alcuna gerarchia né ordine predefinito all’uno o all’altro. Invero, si ritiene che mentre i primi (clinico-strumentale) afferiscano per esplicita volontà del legislatore il solo danno permanente, il secondo (visivo) riguardi sì il danno permanente, rappresentandone di fatto un elemento valutativo ultroneo che per certo non si sostituisce ai primi due, ma attenga in via ulteriore e precipua il danno temporaneo, costituendone in questo caso un presupposto di risarcibilità e valutazione differente ed alternativo rispetto a quelli clinico e strumentale. Tale interpretazione è suffragata dalla stessa Corte costituzionale che, con la sentenza n. 235/2014 già sopra richiamata, sull’art. 32, commi 3ter e 3quater esponeva quanto segue:

Tali nuove disposizioni – [omissis] – rispettivamente comportano, per tali lievi lesioni:

− la necessità di un “ accertamento clinico strumentale” (di un referto di diagnostica, cioè, per immagini) per la risarcibilità del danno biologico permanente;

− la possibilità anche di un mero riscontro visivo, da parte del medico legale, per la risarcibilità del danno da invalidità temporanea.

Se dunque in entrambe le citate sentenze di merito si fa riferimento ad un’interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni di cui qui si discute, al contempo si ritiene che un’attenta e puntuale interpretazione del dettato normativo dovrebbe in realtà condurre ad una differenziazione dei presupposti di accertamento e valutazione del danno biologico tra permanente e temporaneo, nel senso di cui si è appena dato conto.

La recente sentenza n. 22066/2018 della Corte di Cassazione richiamata in esordio di questo intervento, facendo seguito ad altre pronunce di contenuto simile, introduce ulteriori spunti, fissando principi applicativi e di interpretazione di indubbio interesse. La Suprema Corte ha infatti enucleato come:

[omissis] l’accertamento clinico strumentale obiettivo non potrà in ogni caso ritenersi l’unico mezzo probatorio che consenta di riconoscere tale lesione a fini risarcitori, a meno che non si tratti di una patologia, difficilmente verificabile sulla base della sola visita del medico legale, che sia suscettibile di riscontro oggettivo soltanto attraverso l’esame clinico strumentale.

Ed ancora:

[omissis] alla stregua di tale principio, cui il Collegio intende dare continuità, deve dunque ritenersi che, ferma restando la necessità di un rigoroso accertamento medico-legale da compiersi in base a criteri oggettivi, la sussistenza dell’invalidità permanente non possa essere esclusa per il solo fatto che non sia documentata da un referto strumentale per immagini, sulla base di un automatismo che vincoli, sempre e comunque, il riconoscimento dell’invalidità permanente ad una verifica di natura strumentale.

La Corte di Cassazione ha dunque chiarito, tra l’altro, come ai fini dell’accertamento di una lesione all’integrità psico-fisica ci si debba attenere a rigorosi ed oggettivi criteri medico-legali, senza tuttavia che sia richiesto un referto strumentale per immagini. A sommesso avviso dello scrivente, tale principio pare condivisibile solo laddove, secondo una riconosciuta e condivisa prassi medico-legale nella quale per evidenti ragioni non ci si addentra, possa ipotizzarsi un accertamento strumentale che non sia, per l’appunto, «per immagini». Qualora invece non possa darsi altro accertamento strumentale se non quello per immagini, si ritiene che l’interpretazione fatta propria dalla Suprema Corte conduca di fatto ad una sostanziale disapplicazione dell’art. 32, comma 3ter del d.l. n. 1/2012, convertito in legge n. 27/2012. Il richiamo che la sentenza in commento opera della precedente pronuncia n. 1272/2018 della Suprema Corte farebbe propendere, in realtà, proprio per questa seconda possibilità. Ed infatti la Cassazione si era già sul punto così espressa:

Il rigore che il legislatore ha dimostrato di esigere – che, peraltro, deve caratterizzare ogni tipo di accertamento in tale materia – non può essere inteso, però, come pure alcuni hanno sostenuto, nel senso che la prova della lesione debba essere fornita esclusivamente con l’accertamento clinico strumentale;[omissis] infatti, è sempre e soltanto l’accertamento medico legale svolto in conformità alle leges artis a stabilire se la lesione sussista e quale percentuale sia ad essa ricollegabile. E l’accertamento medico non può essere imbrigliato con un vincolo probatorio che, ove effettivamente fosse posto per legge, condurrebbe a dubbi non manifestamente infondati di legittimità costituzionale, posto che il diritto alla salute è un diritto fondamentale garantito dalla Costituzione e che la limitazione della prova della lesione del medesimo deve essere conforme a criteri di ragionevolezza.

Nella sostanza, quindi, secondo l’orientamento allo stato maggioritario sia nella giurisprudenza di merito (di cui si sono sopra citate due pronunce tra le molte di simile contenuto) che di legittimità, ai fini dell’accertamento della lesione dell’integrità psico-fisica, nonché della successiva e conseguente valutazione del danno, i criteri scientifici clinico-strumentale-visivo debbono essere intesi in via paritaria ed alternativa, con una commistione dei piani applicativi degli art. 32, commi 3ter e 3quater, pur dichiaratamente distinti tra danno permanente danno temporaneo. Si ritiene, d’altro canto, che la richiamata necessità di un accertamento medico legale svolto in conformità alle leges artis e non già quello di un esame clinico-strumentale conduca come accennato ad una sostanziale disapplicazione delle norme in commento, difficilmente motivabile sulla scorta di un potenziale profilo di illegittimità costituzionale che la stessa Corte costituzionale ha esplicitamente escluso.

Pare dirimente, in conclusione, rammentare come la valutazione circa l’antigiuridicità di un fatto e la meritevolezza di una tutela risarcitoria del danno che ne può conseguire, qualora coerenti con l’impianto costituzionale del nostro ordinamento, costituiscano scelte prettamente ed esclusivamente legislative. Rimane certamente, ad avviso di chi scrive, un contesto nel quale la non felice formulazione delle norme in commento non è stata e non è d’ausilio per gli operatori del diritto: circostanza, questa, che imporrebbe un ulteriore intervento riformatore, posto che la recente introduzione della legge n. 124/2017 non ha per certo gettato nuova luce sulla questione.