terzo trasportato: il fatto umano rientra nel caso fortuito che libera l’assicuratore del vettore

Con la sentenza 13 febbraio 2019, n. 4147, la Cassazione ha preso posizione in merito all’azione diretta del terzo trasportato, che sia rimasto danneggiato in un sinistro stradale, nei confronti dell’assicuratore del vettore/veicolo su cui si trovava al momento dell’incidente.

Ricordiamo che l’art. 141 d.lgs. 209/2005, prevede che:

1. Salva l’ipotesi di sinistro cagionato da caso fortuito, il danno subito dal terzo trasportato è risarcito dall’impresa di assicurazione del veicolo sul quale era a bordo al momento del sinistro entro il massimale minimo di legge, fermo restando quanto previsto all’articolo 140, a prescindere dall’accertamento della responsabilità dei conducenti dei veicoli coinvolti nel sinistro, fermo il diritto al risarcimento dell’eventuale maggior danno nei confronti dell’impresa di assicurazione del responsabile civile, se il veicolo di quest’ultimo è coperto per un massimale superiore a quello minimo.

2. Per ottenere il risarcimento il terzo trasportato promuove nei confronti dell’impresa di assicurazione del veicolo sul quale era a bordo al momento del sinistro la procedura di risarcimento prevista dall’articolo 148.

3. L’azione diretta avente ad oggetto il risarcimento è esercitata nei confronti dell’impresa di assicurazione del veicolo sul quale il danneggiato era a bordo al momento del sinistro nei termini di cui all’articolo 145. L’impresa di assicurazione del responsabile civile può intervenire nel giudizio e può estromettere l’impresa di assicurazione del veicolo, riconoscendo la responsabilità del proprio assicurato. Si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni del capo IV.

4. L’impresa di assicurazione che ha effettuato il pagamento ha diritto di rivalsa nei confronti dell’impresa di assicurazione del responsabile civile nei limiti ed alle condizioni previste dall’articolo 150“.

Come sottolineato dai commentatori e dalla giurisprudenza di merito, tale disposizione prevede un favor nei confronti del terzo danneggiato, dandogli infatti modo di procedere direttamente nei confronti dell’assicuratrice della vettura su cui viaggiava. Questo favor ha una duplice declinazione, che facilita l’esercizio dell’azione: a) evita che il terzo danneggiato debba raccogliere le informazioni dagli altri veicoli coinvolti nel sinistro, potendo limitarsi a raccogliere – con molto più facilità – i dati dell’auto su cui si trovava al momento dell’impatto; b) il terzo danneggiato deve semplicemente dimostrare l’accadimento, mentre è esonerato dalla dimostrazione di chi sia il responsabile dell’accaduto.

Alla stregua di tale favor, pressoché tutti i commentatori e moltissimi giudici di merito avevano però concluso che la responsabilità dell’assicuratore del veicolo su cui il terzo è trasportato sia di natura oggettiva. E giustificano tale conclusione adducendo proprio il favor che il legislatore ha voluto riconoscere al terzo trasportato.

Tuttavia, tale lettura incontra un duplice limite, semantico e sistemico. Infatti, l’incipit della norma in commento prevede espressamente la clausola liberatoria del caso fortuito.

I sostenitori della tesi qui criticata, non potendo evidentemente non prendere atto del testo della norma, ne hanno dato una lettura particolarmente restrittiva, adducendo che nel caso fortuito rientrerebbe solamente un fatto naturale non prevedibile né evitabile. Tale interpretazione – avvallata come detto in molti casi giudiziali – si scontra tuttavia con un evidente limite, costituito dalla doppia circostanza che essa legge “forza maggiore” laddove invece la norma scrive “caso fortuito”, che nell’ordinamento italiano ricomprende pacificamente anche il fatto umano del terzo.

Già in un intervento del febbraio 2016, chi scrive aveva avuto modo di osservare che questa interpretazione restrittiva appare come una forzatura ermeneutica, che non trova ragion d’essere nella struttura giuridica dell’art. 141, né giustificazione o sistemazione logica in seno all’ordinamento giuridico. 
In realtà, che l’art. 141 debba intendersi come presunzione di (co-)responsabilità, con ciò facendo esattamente il paio con l’art. 2054 c.c. e istituendo per evidente conseguenza la solidarietà nei confronti del terzo trasportato, lo si evince dall’espressione “a prescindere dall’accertamento della responsabilità dei conducenti”. 

L’interpretazione più lineare di tale locuzione (e quella più sostenibile vista la sua coesistenza con la clausola liberatoria) è quella di liberare il terzo trasportato dall’onere di provare la colpa del vettore per ottenere il risarcimento dal suo assicuratore. Ma, esattamente come in ogni caso di responsabilità oggettiva e/o presunta, all’obbligato è data la possibilità di liberarsi qualora l’evento si sia verificato per un fatto esterno alla sua sfera di controllo. Tanto che, per l’appunto, l’incipit dell’art. 141 fa “salva l’ipotesi di sinistro cagionato da caso fortuito”, inserendo una clausola liberatoria che testimonia la natura presuntiva (dalla quale potersi dunque liberare) della responsabilità dell’assicuratore del vettore. 

Ora, non v’è ragione alcuna di ritenere che, in tutto il sistema giuridico, solamente nell’art. 141 d.lgs. 209/2005 il caso fortuito, ossia ciò che non rientra nella sfera di controllo del soggetto presunto responsabile, non ricomprenda anche il fatto umano del terzo (di cui il responsabile non debba rispondere). Ciò sarebbe contraddittorio, nello specifico con l’art. 2054 C.C., e in generale coi principi dell’ordinamento, traibili ad esempio dagli artt. 1227 e 2055 c.c. o dagli artt. 2051, 2048 e 2049 C.C. così come applicati anche in sede giudiziale. 

E la contraddittorietà la si desume anche dalla circostanza che quella dottrina, pur accomunata nell’escludere il fatto umano del terzo dal caso fortuito dell’art. 141, si divide invece nell’individuazione del fatto umano rientrante o meno in tale esclusione: c‘è chi ricomprende solo il fatto del terzo conducente, chi anche del terzo non alla guida come ad esempio il pedone, chi infine anche quello del terzo custode (es: gestore o proprietario della strada). 

D’altro canto, come la Corte costituzionale ha avuto modo di stabilire, l’art. 141 si affianca al rimedio generale dell’art. 144: sicché il terzo trasportato, che non abbia ottenuto il risarcimento dall’assicuratore del vettore in virtù della clausola liberatoria, potrà senz’altro ottenere soddisfazione con l’azione diretta verso l’assicuratore del responsabile civile ove non operi giuridicamente la presunzione solidale dell’art. 141. 

La ragionevolezza e linearità di tale interpretazione ha trovato ora avvallo nella sentenza di legittimità, che consente all’assicuratore del vettore di dare la prova liberatoria, ossia di dimostrare l’assenza di un pur  minimo profilo di responsabilità anche solo concorsuale del proprio assicurato nella causazione del sinistro:

“L’art. 141 d.lgs. n. 209/2005, in conseguenza del riferimento al caso fortuito – nella giuridica accezione inclusiva di condotte umane – come limite all’obbligo risarcitorio dell’assicuratore del vettore verso il trasportato danneggiato nel sinistro, richiede che il vettore sia almeno corresponsabile del sinistro quale presupposto della condanna risarcitoria del suo assicuratore; una volta accertato l’an della responsabilità del vettore, non occorre accertare quale sia la misura di responsabilità dei conducenti dei veicoli coinvolti, dovendo comunque l’assicuratore del vettore risarcire in toto il trasportato, salva eventuale rivalsa verso l’assicuratore di altro corresponsabile o di altri corresponsabili della causazione del sinistro.”

E ancora:

“In tema di risarcimento del danno da circolazione stradale, l’azione conferita dall’art. 141 d.lgs. 209/2005 al terzo trasportato, nei confronti dell’assicuratore del vettore, postula l’accertamento della corresponsabilità di quest’ultimo, dovendosi riferire la “salvezza del caso fortuito”, di cui all’inciso iniziale della norma, non solo alle cause naturali, ma anche alla condotta umana del conducente di altro veicolo coinvolto; la relativa presunzione di legge può,tuttavia, essere superata dalla prova, a carico dell’assicuratore del vettore, della totale assenza di responsabilità del proprio assicurato, ovvero dalla dichiarazione, resa ai sensi dell’art. 141, comma terzo, dall’assicuratore del responsabile civile intervenuto nel processo, a fronte della quale il giudice è tenuto ad estromettere l’originario convenuto, rivolgendosi “ex lege” la domanda risarcitoria dell’attore verso l’assicuratore intervenuto.”
Insomma,  la lettura corretta della norma non può prescindere dal richiamo al caso fortuito, che viene scelto dal legislatore come parametro del bilanciamento degli interessi tra il trasportato e l’assicuratore del vettore. Il fortuitus casus, ivi richiamato, è il tradizionale concetto giuridico ormai pacifico da anni e non già una fattispecie che esclude le condotte umane – compresa quella del danneggiato – come vorrebbero i sostenitori dell’interpretazione criticata e oggi smentita dai giudici di legittimità. Se il legislatore avesse inteso stravolgere tale consolidato concetto, lo avrebbe fatto ex professo.

funzionamento e liceità della liberalizzazione e aggiornamento del RUI

 Con la sentenza n. 4/2020 pubblicata il 02.01.2020, il Tribunale di Trento è intervenuto sulla c.d. liberalizzazione del portafoglio: un istituto poco frequentato nelle aule giudiziali, ma che ricopre un’importanza diffusa e rilevante nel mercato assicurativo e nei rapporti tra compagnie preponenti e agenti di assicurazione.

La pronuncia in esame si pone, dunque, come un precedente in grado di affiancare e avvallare la consueta prassi, invalsa da decenni nel settore, dandole crisma d’applicazione giurisprudenziale: sia sotto il profilo della sua definizione e legittimità; sia sotto il profilo della ridefinizione dei rapporti (e quindi dei diritti e degli obblighi) tra impresa e intermediario successivamente alla sottoscrizione dell’accordo di liberalizzazione.

L’importanza della sentenza è dovuta anche al fatto che il Tribunale di Trento è territorialmente competente per uno dei maggiori gruppi assicurativi italiani (nonché il primo per fondazione): sicché l’arresto in commento è potenzialmente destinato a creare un precedente anche per gli altri fori che, al pari di quello tridentino, siano per collocazione territoriale vocati a conoscere con più frequenza di tale materia e più in generale di diritto delle assicurazioni.

La definizione.

Quanto alla definizione di liberalizzazione, il Tribunale di Trento così puntualizza:

Vale premettere che la liberalizzazione deve intendersi quale un accordo tra la compagnia assicurativa e l’ex agente, in forza del quale le parti convengono di sostituire le indennità di fine rapporto con la possibilità di quest’ultimo di mantenere la gestione ordinaria delle polizze, trasferendo alla scadenza concordata i contratti assicurativi ad una nuova compagnia  (…).

 In particolare giova rammentare che con la liberalizzazione del portafoglio aziendale il preponente cede all’agente gli affari rinunciando ai vantaggi economici che ne sarebbero derivati, laddove l’agente ottiene la possibilità di trasferire i contratti dallo stesso gestiti presso un’altra compagnia assicurativa, rinunciando alla indennità di risoluzione del rapporto previste dall’art. 1751 c.c. e dall’ANA 2003.

L’art. 1751 c.c. prevede un sistema indennitario, che vede come presupposto l’impossibilità dell’agente di continuare a lucrare provvigioni sugli affari che rimangano del preponente, stante la cessazione del rapporto agenziale; di talché è evidente che in tale ipotesi le indennità costituiscono un corrispettivo economico a fronte della cessione dei contratti da parte dall’agente ed in favore della preponente all’atto della cessazione del mandato.

Diversamente, nella fattispecie in esame, l’intervenuta liberalizzazione consentendo all’agente di mantenere i guadagni provvigionali, costituisce una alternativa alle indennità previste dall’ANA 2003”.

Più nello specifico, optando per la liberalizzazione del portafoglio, l’intermediario cessa di essere

agente, rinunciando nel contempo definitivamente alle indennità di fine rapporto, come previsto dall’art. 12 Ter co. 1, 3 e 4 dell’Accordo Nazionale Agenti 2007”.

Naturalmente ci si è interrogati, soprattutto in dottrina, sulla liceità di una deroga all’art. 1751 c.c. A riguardo, per brevità è opportuno ricordare:

  1. che la deroga è sempre possibile e lecita laddove sia di miglior favore per l’agente – posizione oramai unanime tra gli interpreti
  2. che l’art. 1751 c.c., con specifico riferimento agli agenti di assicurazione, trova applicazione solo dove non vi siano apposite previsioni – il tutto, in virtù dell’art. 1753 c.c.

Questo secondo assunto – va dato atto – è criticato da parte della dottrina che si occupa di contratto di agenzia; ma è ritenuto assodato e legittimo per chi si occupa più nello specifico degli agenti di assicurazione, i cui connotati – sia economici sia sociali sia imprenditoriali – li distinguono dagli agenti di commercio, tanto che sono stati recepiti a livello normativo sia dal legislatore italiano (fra l’altro per l’appunto, con l’art. 1743 c.c.) che dal legislatore comunitario (direttiva 86/653/CEE; cfr. Corte di Giustizia CE, ordinanza 2003/C146/21).

Il Tribunale di Trento, pur succintamente e incidenter tantum, in merito alla liberalizzazione ha statuito che la

legittimità è stata riconosciuta da Cass. nn. 18203/2002 e 10853/2000, nonché da Trib. Milano n. 12129/2005, secondo cui “è meritevole di tutela, in quanto migliorativo, l’accordo di liberalizzazione del portafoglio agenziale assicurativo, disciplinato per la prima volta dalla contrattazione collettiva del 2003, in forza del quale l’agente rinuncia alle indennità di risoluzione del rapporto in cambio della facoltà di trasferire i contratti ad altra compagnia più redditizia, conseguendo così lo scopo principale dell’accordo, cioè il recupero della redditività dell’agenzia”.

In definitiva, l’atto di liberalizzazione costituisce un patto con il quale – per accordo tra le parti o su richiesta dell’agente – quest’ultimo scambia l’indennità di fine rapporto con la gestione temporanea delle polizze con lo scopo di trasferirle alla sua nuova preponente: la scommessa imprenditoriale consiste nella possibilità di mantenere con sé gli assicurati, appoggiandoli sulla nuova mandante, e continuando a lucrare le provvigioni su quei contratti che (senza liberalizzazione) sarebbero rimasti alla ex preponente.

I nuovi rapporti tra compagnia e intermediario e l’aggiornamento del Registro Unico Intermediari

Ci si può chiedere, allora, se l’accordo di liberalizzazione, per il periodo della sua durata, mantenga in essere un rapporto agenziale tra compagnia e intermediario, visto che quest’ultimo prosegue, seppure temporaneamente, nella gestione delle polizze dell’ormai ex preponente. Sul punto – come vedremo – l’Accordo Nazionale Agenti è decisamente chiaro.

E tuttavia vale la pena riportare la parte di sentenza che si occupa di questo aspetto; e che risponde alla lamentela dell’ex agente, il quale riteneva non corretto che, una volta siglato l’accordo di liberalizzazione, la compagnia avesse comunicato all’Ivass (per la conseguente pubblicazione sul Registro Unico Intermediari) che egli non era più suo agente.

A chi scrive è noto che non poche compagnie comunicano all’Ivass che l’intermediario ha cessato di operare come loro agente solo dopo la cessazione della liberalizzazione. E tuttavia, dato testuale alla mano, va ritenuta più corretta la prassi di quelle compagnie, tra cui quella protagonista della sentenza, che danno questa comunicazione all’Ivass sin dall’inizio della liberalizzazione.

Dello stesso parere è anche il giudicante che, alla luce di quanto espressamente previsto dall’Accordo Nazionale Agenti incluso il suo allegato A, ha così deciso:

Né appare condivisibile l’affermazione di parte attorea, secondo cui “E’ notorio che durante il periodo di liberalizzazione l’Agente continua ad essere considerato tale a tutti gli effetti…” (v. pag. 12 atto di citazione).

Invero, giova rammentare che la liberalizzazione presuppone l’intervenuta cessazione dal rapporto agenziale, come si evince dall’art. 12 ter ANA, il quale al co. 1 recita: “…. ferma restando l’efficacia del recesso, l’agente potrà scegliere tra il pagamento degli indennizzi e la liberalizzazione del portafoglio gestito dall’agenzia…”, prevedendo il co. 3 che “l’impresa… consente all’agente cessato, nel rispetto degli assicurati, di trasferire ad altre imprese i contratti di assicurazione in carico all’agenzia alla data di cessazione del rapporto”.

A ciò si aggiunga che l’art, 2 del modello di accordo di liberalizzazione di cui all’allegato A prevede che “Il rapporto di agenzia di cui in premessa è risolto dalla data in cui il presente accordo sottoscritto dall’agente è pervenuto all’impresa ai sensi del III comma dell’art. 12 Ter ANA 2003, e comunque non oltre il 30 ° giorno dalla comunicazione del recesso, come previsto dal I comma dell’art. 12 Ter ANA 2003”.

D’altro canto il rapporto che si instaura a seguito dell’accordo di liberalizzazione non può essere qualificato come agenziale in quanto ai sensi dell’art. 4 all. A “Durante il suddetto periodo l’agente non potrà stipulare nuove polizze, né concludere affari e incrementare quelli esistenti, e comunque non potrà svolgere alcuna attività promozionale diretta o indiretta per conto dell’impresa” (v. anche art. 3 Accordo di liberalizzazione).

Da ultimo, e appare dirimente sul punto l’art. 17 all. A stabilisce che “Il rapporto tra agente e impresa inerente il presente accordo di liberalizzazione non è assoggettato né all’ANA 2003 né agli artt. 1742 -1752 del codice civile”, con ciò escludendo espressamente l’attività agenziale, così come definita dall’art. 1741 c.c. e dall’art. 106 Cod. Ass.”

In sostanza, sotto il regime della liberalizzazione l’intermediario incaricato ha il solo compito di gestire le polizze sino alla prima scadenza di premio (annuale o rateale): a quel momento, l’assicurato potrà scegliere tra la disdetta della polizza con sottoscrizione di una nuova presso la nuova preponente dell’intermediario, e la conferma della polizza col vecchio assicuratore (nel qual caso verrà assegnato ad altro agente). L’intermediario, durante la liberalizzazione, non può invece rinnovare le polizze né stipularne di nuove per conto dell’ex preponente.

Non svolge dunque le attività tipiche dell’agente per l’ex compagnia, e pertanto l’aggiornamento del RUI andrà fatto più correttamente proprio all’inizio della liberalizzazione.

Rapporti tra giudizio penale e giudizio civile, opponibilità nei confronti dell’assicuratore

Con la sentenza n. 18325 del 2019 la Suprema Corte di Cassazione modifica il proprio consolidato orientamento circa l’opponibilità all’assicuratore del giudicato di condanna del danneggiante di un sinistro stradale, nell’ipotesi in cui il primo, pur non essendo stato parte del giudizio penale, risulti convenuto dal danneggiato nel giudizio civile ai fini del pagamento del quantum risarcitorio definito nel giudizio penale. Nello specifico la Terza Sezione Civile afferma che:

il giudicato di condanna del danneggiante non può essere opposto dal danneggiato che agisca in giudizio nei confronti dell’assicuratore in assicurazione obbligatoria sulla responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti ed ha in tale giudizio esclusivamente efficacia di prova documentale, al pari delle prove acquisite nel processo in cu il giudicato si è formato”.

Il caso: Il proprietario di un veicolo coinvolto in un sinistro stradale veniva condannato dal GdP di Milano per il reato di lesioni personali colpose ed altresì al risarcimento del danno in favore della parte civile, danneggiata nel sinistro stradale de quo. Nel processo penale, tuttavia, non interveniva l’assicurazione.

Appellata dal condannato la sentenza di primo grado, la condanna veniva confermata dal Tribunale di Milano e visto il mancato pagamento del risarcimento, la parte civile chiede l’emissione di un decreto ingiuntivo. Nel giudizio civile veniva per la prima coinvolta la compagna assicuratrice per la RCA del danneggiante/condannato, la quale si opponeva al decreto ingiuntivo emesso. Il Tribunale civile adito, quindi, a seguito dell’opposizione, revocava il suddetto decreto e procedeva ad una rideterminazione nella minor somma, previa Ctu, del credito dovuto a titolo risarcitorio, condannando l’assicuratrice al pagamento in favore del danneggiato (degli eredi del danneggiato nel frattempo deceduto).

Tale sentenza di primo grado civile veniva quindi appellata dagli eredi del danneggiato (già parte civile del processo penale); l’assicuratrice, costituitasi in appello, invece chiedeva il rigetto del gravame.

Nel frattempo, la Suprema Corte di Cassazione, adita avverso la sentenza d’appello del giudizio penale (che aveva confermato la condanna per lesioni personali colpose e il risarcimento del danno alla parte civile), annullava tale sentenza limitatamente agli effetti civili relativamente al danno da risarcire, rimettendone alla Corte d’Appello di Milano il giudizio. La Corte d’Appello di Milano adita, quindi, rideterminava il credito risarcitorio nella maggior somma.

Con sentenza del 2016 la Corte d’Appello di Milano (giudizio civile), in parziale riforma della sentenza civile di primo grado – che come detto sopra era stata appellata – condannava l’assicuratrice al pagamento in favore delle eredi della somma di cui alla sentenza d’appello penale seguita alla remissione da parte della Suprema Corte, ed altresì a tenere indenne il condannato/danneggiante da quanto da esso dovuto in forza di tale sentenza.

A questo punto si poneva il seguente quesito: posto che l’assicuratrice è stata parte del solo giudizio civile (primo e secondo grado), ma non è stata mai coinvolta nel complessivo giudizio penale, è ad Ella opponibile o meno il giudicato penale recante l’accertamento sul quantum risarcitorio?

Su tale punto ricorre infatti per Cassazione avverso la sentenza (civile) della Corte d’Appello di Milano l’assicuratrice, denunciando la violazione o falsa applicazione degli artt. 1306 e 2909 cc..

Secondo la ricorrente, infatti, il condebitore solidale ex art. 1306 cc non può subire alcun pregiudizio dalla sentenza resa in un procedimento a cui è rimasto estraneo, escludendosi il nesso di pregiudizialità dipendenza tra rapporti giuridici in quanto, non essendo stato citato nel giudizio penale l’assicuratore, c’era stata una scissione tra l’accertamento svolto in sede penale e quello successivo eseguito nel giudizio civile.

La Suprema Corte ritiene tale motivo fondato, evidenziando come sulla questione dell’opponibilità del giudicato favorevole al danneggiato nei confronti dell’assicuratore nelle ipotesi di assicurazione RC derivante dalla circolazione dei veicoli a motore, qualora il giudicato sia conseguito solo nei confronti del danneggiante assicurato, si contrappongono due orientamenti:

–         Il primo, meno recente, esclude tale opponibilità, in forza dell’estraneità a tale giudizio dell’assicuratore, terzo rispetto al rapporto processuale tra danneggiato ed assicurato;

–         Il secondo, più recente, ritiene che la sentenza di condanna al risarcimento pronunciata nei confronti del responsabile di un sinistro stradale faccia stato nei confronti dell’assicuratore per quanto riguarda l’obbligo risarcitorio del danneggiante e del correlativo debito, anche qualora questo non abbia partecipato al giudizio, e ciò in quanto l’assicuratore non è titolare di una posizione autonoma rispetto al rapporto a cui si riferisce la sentenza e non può disconoscere l’accertamento in essa contenuto.

Nonostante la stessa Suprema Corte negli ultimi anni abbia accordato una preferenza al secondo orientamento, nel caso in esame il collegio ritiene di aderire alla posizione minoritaria, evidenziando come la tesi favorevole all’opponibilità del giudicato muova dalla risalente teoria del giudicato riflesso. In forza di tale teoria, si legge sulla sentenza de qua,

il giudicato, oltre ad avere una sua efficacia diretta nei confronti delle parti, loro eredi e aventi causa, è dotato anche di un’efficacia riflessa, nel senso che la sentenza, come affermazione oggettiva di verità, produce conseguenze giuridiche nei confronti di soggetti rimasti estranei al processo in cui è stata emessa, allorquando questi siano titolari di un diritto dipendente dalla situazione definita in quel processo o comunque di un diritto subordinato a tale situazione, con al conseguenza reciproca che l’efficacia del giudicato non si estende a quanti siano titolari di un diritto autonomo rispetto al rapporto giuridico definito con la prima sentenza”.

Presupposto affinché si realizzai tale effetto del giudicato, prosegue la Corte, è la sussistenza quindi di un nesso di pregiudizialità dipendenza fra i rapporti giuridici.

Orbene, quando però i soggetti del rapporto pregiudiziale e quelli del rapporto condizionato non coincidono – come nel caso di specie -, prosegue il collegio, nel processo relativo a quest’ultimo rapporto non è possibile un accertamento con efficacia di giudicato della questione pregiudiziale su domanda di una delle parti, per il semplice motivo che, non essendo queste titolari del rapporto in questione, non sono legittimate ad agire sullo stesso; seguendo invece la teoria del giudicato riflesso, il giudicato sul rapporto pregiudiziale esplicherebbe la sua efficacia anche nei confronti del terzo titolare del rapporto legato a quello oggetto del primo giudizio (rapporto condizionato), stante il nesso di dipendenza giuridica.

Nel campo dell’assicurazione sulla responsabilità civile, la responsabilità del danneggiante e la sussistenza del contratto di assicurazione sono elementi costitutivi dell’obbligo dell’assicuratore di tenere indenne il danneggiante; seguendo la teoria del giudicato riflesso, il giudicato tra danneggiato e danneggiante, in ordine all’esistenza della responsabilità e all’ammontare del debito, sarebbe opponibile all’assicuratore che non abbia partecipato al giudizio tra questi due soggetti, qualora l’assicurato agisca per essere tenuto indenne dalle conseguenze svantaggiose della sua soccombenza o sia il danneggiato stesso ad agire in sede risarcitoria in caso di assicurazione obbligatoria:

L’effetto giuridico della responsabilità resta accertato come rapporto giuridico e dunque con efficacia di giudicato anche per il terzo, e non quale mero fatto, suscettibile di accertamento incidenter tantum nella fattispecie di cui il terzo è parte”.

Tuttavia

Nell’assicurazione obbligatoria sulla responsabilità civile derivante da circolazione dei veicoli a motore e natanti” prosegue la Corte “la relazione di pregiudizialità dipendenza è ciò che rende unisoggettiva un’obbligazione che, per effetto dell’azione diretta, diventa obbligazione solidale”.

L’azione diretta del danneggiato contro l’assicuratrice comporta che il responsabile del sinistro e l’assicuratore rispondano in solido verso il danneggiato; un tanto, risultando applicabile l’art. 1306 cc relativo alla solidarietà, di conseguenza il giudicato intervenuto fra danneggiato e danneggiante non può valere contro il terzo assicuratore. Diversamente, può valere in suo favore solo qualora manifesti la volontà di avvantaggiarseneLa presenza della solidarietà passiva impedisce l’effetto del giudicato riflesso, che conseguirebbe al nesso di pregiudizialità dipendenza.

Accantonata la teoria dell’efficacia riflessa, vista anche l’esigenza di garantire al terzo l’esercizio del diritto di difesa ex art. 24 Cost. e, in forza del principio del giusto processo, il diritto ad un contraddittorio pieno ex art. 111 Cost., la Suprema Corte protende per l’adozione della tesi minoritaria.

Ferma quindi la regola che l’efficacia del giudicato non può operare contro il terzo, può desumersi dall’art. 1306 cc il principio generale per cui gli effetti del giudicato favorevole al terzo, laddove questo manifesti l’intenzione di avvalersene, possono essere opposti al soggetto che è stato parte del processo pregiudicante confluito nel giudicato, operando quindi gli effetti del giudicato secundum eventum litis. Tanto rilevato, in conclusione la Terza Sezione Civile della Suprema Corte di Cassazione enuncia il seguente principio di diritto:

il giudicato di condanna del danneggiante non può essere opposto dal danneggiato che agisca in giudizio nei confronti dell’assicuratore in assicurazione obbligatoria sulla responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti e ha in tale giudizio esclusivamente efficacia di prova documentale, al pari delle prove acquisite nel processo in cui il giudicato si è formato”.

Locazioni: in caso di danni all’immobile il conduttore paga anche i canoni per il periodo necessario per i lavori di ripristino

Come noto, in forza di quanto previsto dal primo comma dell’art. 1590 c.c.,

«il conduttore deve restituire la cosa al locatore nello stato medesimo in cui l’ha ricevuta, in conformità della descrizione che ne sia stata fatta dalle parti, salvo il deterioramento o il consumo risultante dall’uso della cosa in conformità del contratto».

L’applicazione di tale disposizione di legge ha animato, in passato, un acceso dibattito dottrinale e giurisprudenziale, arricchitosi con il recente pronunciamento della Corte di Cassazione (ordinanza n. 6956 dd. 07.03.2019). La Suprema Corte, in particolare, ha avuto modo di evidenziare come qualora al momento della riconsegna dell’immobile locato quest’ultimo presenti dei danni eccedenti il normale degrado dovuto al suo utilizzo, il conduttore sarà tenuto al risarcimento del relativo danno. Tale danno – ed è qui l’aspetto più interessante della sentenza – include non solo il costo delle opere necessarie per ripristinare l’immobile allo stato precedente ma anche, in via ulteriore, il canone di locazione per tutto il periodo (mesi o frazioni di mesi) necessario per l’esecuzione e il completamento di tali lavori.

Ai fini dell’ottenimento di questa ulteriore voce di danno, quella per l’appunto consistente nella corresponsione dei canoni di locazione per il – ragionevole – periodo in cui verranno svolti i lavori, sempre secondo la Corte di Cassazione il locatore non dovrà necessariamente provare di aver ricevuto da parte di soggetti terzi richieste per la locazione per quel medesimo periodo. In altri termini: si avrà diritto ad ottenere questa voce di risarcimento anche se non si proverà di aver dovuto rinunciare ad altre concrete offerte di locazione proprio per quell’immobile. Sul punto, il recente pronunciamento della Suprema Corte si inserisce all’interno di un solco giurisprudenziale già consolidato da tempo (nello stesso senso si registrano, ad esempio, le sentenze dei giudici di legittimità nn. 6798/93 e 19202/11), che dunque viene ulteriormente rafforzato e confermato.

Si riporta infine, per completezza, uno stralcio della pronuncia n. 6956/2019 qui in commento:

«Infatti, secondo un principio ormai generalissimo – codificato dall’art. 1591 c.c. – “il conduttore in mora a restituire la cosa è tenuto a dare al locatore il corrispettivo convenuto, fino alla riconsegna, salvo l’obbligo di risarcire il maggior danno”. È palese, pertanto, che ogniqualvolta il locatore per fatto del conduttore, non può disporre della cosa locata, lo stesso ha diritto a conseguire “il corrispettivo convenuto”, nonché eventuali danni, ulteriori, ove ne dimostri l’esistenza. Sempre al riguardo – inoltre – non può tacersi che si ha “mancata disponibilità” della cosa locata non solo allorché, scaduto il termine per la restituzione il conduttore non vi provveda, ma anche tutte le volte in cui, per fatto imputabile al conduttore, il locatore non può trarre, dalla cosa, alcun vantaggio, come – ad esempio, nell’ipotesi in cui l’immobile presenti, alla riconsegna (e quindi dopo la restituzione, eventualmente ritardata a norma dell’art. 1591 c.c.) danni eccedenti il degrado dovuto a normale uso dello stesso, con conseguente sua inutilizzabilità per tutto il periodo per il quale si protraggono i lavori di ripristino».

Da un punto di vista operativo, dunque, sarà importante per il locatore da un lato dare dimostrazione di aver consegnato l’immobile a determinate condizioni accettate dal conduttore – in tal senso, dunque, assume rilevanza decisiva tra l’altro il verbale di consegna o le specifiche pattuizioni di contratto – e, dall’altro, contestare e documentare tempestivamente i danni rilevati nell’immobile stesso. In tale contesto, come accennato, il locatore stesso avrà in linea generale diritto ad ottenere ristoro anche del danno consistente nella mancata locazione per il periodo necessario per portare avanti e concludere i lavori, purché ovviamente ciò avvenga in un tempo ragionevole.

Terzo trasportato e cinture di sicurezza

Responsabilità in ambito RCA, conferme da parte della Cassazione

È stata oggetto di attenzione e dibattito, nel recente periodo, l’ordinanza n. 2531 dd. 30.01.2019 della Corte di Cassazione. Con il provvedimento in parola la Suprema Corte è tornata a pronunciarsi su alcuni dei principi cardine in materia di responsabilità da sinistro stradale, nel solco di un orientamento che, invero, poteva ritenersi ad avviso dello scrivente già ampiamente maggioritario – se non perfino consolidato. Il fatto dal quale è originata la pronuncia dei giudici di legittimità attiene, in particolare, il danno patito da un passeggero (terzo trasportato) che non ha fatto uso delle cinture di sicurezza. Come accennato, già in precedenti occasioni la Corte di Cassazione (cfr, tra l’altro, la pronuncia n. 18177/2007) aveva chiarito quanto segue:

“In materia di responsabilità civile, in caso di mancata adozione delle cinture di sicurezza da parte di un passeggero, poi deceduto, di un veicolo coinvolto in un incidente stradale, verificandosi un’ipotesi di cooperazione nel fatto colposo, cioè di cooperazione nell’azione produttiva dell’evento, è legittima la riduzione proporzionale del risarcimento del danno in favore dei congiunti della vittima”.

Il succitato principio ha dunque trovato piena conferma nella recente ordinanza del gennaio 2019. Nella parte argomentativa del proprio provvedimento la Suprema Corte ha attinto ai principi di (auto)responsabilità e di nesso causale , specificando come la messa in circolazione di un veicolo in condizioni di insicurezza – situazione che, per l’appunto, ricorre allorquando non vengano utilizzate le cinture – è certamente ricollegabile all’azione o omissione del conducente ma anche al fatto del trasportato, che ha consapevolmente accettato i rischi della circolazione stessa.

“Pertanto, in caso di danni al trasportato medesimo, sebbene la condotta di quest’ultimo non sia idonea di per sé ad escludere la responsabilità del conducente, né a costituire valido consenso alla lesione ricevuta, vertendosi in materia di diritti indisponibili, essa può costituire nondimeno un contributo colposo alla verificazione del danno, la cui quantificazione in misura percentuale è rimessa all’accertamento del giudice di merito[…]“.

Una percentuale che, per inciso, nel caso in esame è stata determinata in una misura pari al 30%. L’orientamento giurisprudenziale della Suprema Corte, in definitiva, ha trovato ulteriore conferma nell’ordinanza n. 2531/2019, in quella che ad avviso di chi scrive costituisce la corretta declinazione ed applicazione dei principi contenuti, tra gli altri, negli artt. 1227 e 2054-2056 c.c..

Polizze vita: la nomina degli eredi legittimi e il lascito testamentario.

L’istituzione testamentaria di un successore universale funge da revoca tacita degli eredi legittimi originariamente indicati come beneficiari della polizza vita? 

Fra le questioni che nelle polizze vita hanno richiesto le maggiori riflessioni, va sicuramente enumerata la nomina del beneficiario, cui il contraente provveda non indicando nominativamente una o più persone, ma genericamente tutti quelli che siano suoi eredi.

Questa prassi ha più volte richiesto l’intervento della giurisprudenza, chiamata via via a esprimersi sulle conseguenze normative e sulle ricadute pratiche, la maggior parte delle quali relative:

a)    al momento d’individuazione degli eredi: si deve fare riferimento alla stipulazione del contratto assicurativo, al decesso del contraente, alla stesura del testamento?

b)    alla suddivisione pro quota della somma liquidata: va ripartita in parti uguali o secondo le quote successorie stabilite dalla legge o nel testamento?

c)     alle modalità e formalità della revoca di uno o più beneficiari originariamente indicati come eredi: è sufficiente che questi vengano esclusi dalla categoria di successibili?

A) La giurisprudenza è da tempo stabile e costante nell’affermare che, quando come beneficiari di un contratto assicurativo vengano designati gli eredi legittimi, questi

sono da identificarsi con coloro che, in linea teorica e con riferimento alla qualità esistente al momento della morte dello stipulante, siano successibili per legge, indipendentemente dalla loro effettiva chiamata all’eredità” (cfr. tra le più significative Cass. 25635/18; 26606/16; 6531/06; 9388/94)

In primo luogo, dunque, gli eredi legittimi designati quali beneficiari sono una categorizzazione che individua genericamente i soggetti che rivestano tale qualifica, non al momento della stipulazione del contratto assicurativo, ma al momento della morte del contraente assicurato.

Il che ha una logica evidente, volta a tutelare, tra i molti interessi, anche quello del contraente di beneficiare tutti coloro che rientrano nella categoria familiare e quindi in un ambito, non solo giuridicamente e socialmente, ma anche economicamente sensibile e specificamente tutelato dall’ordinamento: e quindi anche chi, ad esempio, al momento di sottoscrizione della polizza non sia ancora nato (si pensi a un figlio non ancora concepito); o, al contrario, per evitare di dover ridesignare i singoli beneficiari per la premorienza di qualcuno di questi.

B) Risponde alla medesima logica che la designazione dell’erede a beneficiario abbia effetti meramente contrattuali, ovvero sia di liquidazione e suddivisione della somma assicurata per il caso morte.

Del resto, ai sensi dell’art. 1920 comma 3 c.c. il beneficiario designato acquista un diritto proprio, che trova la sua fonte nel contratto. Tant’è che la somma liquidata in caso di morte del contraente assicurato rimane estranea all’asse ereditario. Ciò significa che gli eredi non potranno reclamare il capitale così liquidato in favore del terzo beneficiario, e quindi non potranno azionare la reintegrazione; né, parallelamente, potranno agire per collazione e riduzione qualora solo alcuni degli eredi siano stati designati anche quali beneficiari della polizza vita.

Ne consegue che anche la suddivisione della somma assicurata per il caso morte segue le ordinarie regole contrattuali: e cioè, a meno che non sia altrimenti previsto nell’atto di nomina del beneficiario, le quote di suddivisione debbono ritenersi uguali, e non invece computate in base alle regole successorie di devoluzione agli eredi legittimi o secondo le disposizioni testamentarie. Infatti, come da ultimo ha ben spiegato e ricordato Cass. 25635/2006

la designazione dei terzi beneficiari del contratto, mediante il riferimento alla categoria degli eredi legittimi o testamentari, non vale ad assoggettare il rapporto alle regole della successione ereditaria, trattandosi di mera indicazione dei beneficiari medesimi in funzione della loro astratta appartenenza alla categoria dei successori indicata nel contratto”.

C) Se dunque la designazione dei beneficiari col richiamo alla categoria degli eredi legittimi ha finalità endo-contrattuali inter vivos, e non comporta l’assoggettamento della nomina alle regole successorie, allora l’erede legittimo, anche se non effettivamente chiamato all’eredità, rimane comunque beneficiario del contratto assicurativo. Infatti, la designazione contrattuale degli eredi legittimi individua come beneficiari tutti coloro che siano successibili per legge, e cioè coloro che la legge definisce come eredi legittimi, a prescindere quindi dalle concrete vicende e disposizioni ereditarie.

Quali effetti hanno queste conclusioni qualora, successivamente alla designazione contrattuale degli eredi legittimi a beneficiari, il contraente di polizza rediga un testamento? 

La questione non è di poco momento, dato che la legge riconosce al contraente assicurato la potestà di revocare e modificare i beneficiari di polizza originariamente designati. E che, come spesso avviene per gli atti giuridici, questa modifica o revoca può avvenire, non solo espressamente e formalmente, ma anche attraverso contegni e comportamenti successivi, che possano far ritenere manifestata per facta concludentia la volontà novativa o modificativa di quella manifestata in precedenza.

Ora, se è pacifico (e previsto per legge) che il contraente assicurato possa revocare e modificare i beneficiari della polizza vita anche per testamento, occorre capire se l’istituzione di un erede testamentario come proprio successore universale possa ritenersi anche quale revoca tacita dei beneficiari originari individuati in contratto negli eredi legittimi con contestuale designazione del nuovo beneficiario nell’erede testamentario.

A tale questione ha dato soluzione la già citata Cass. 25635/2006 che, in linea coi precedenti e con la logica ermeneutica di cui si è qui dato conto, s’è così espressa:

la questione risolutiva concerne la interpretazione della clausola apposta nel contratto di assicurazione in caso di morte dell’assicurata, laddove individua i beneficiari negli eredi legittimi. Escluso, come si è detto, che l’attribuzione del diritto avvenga in applicazione e per effetto della disciplina che regola la successione ereditaria, il riferimento contenuto in tale clausola alla qualità di eredi (legittimi) integra un criterio di determinazione per relationem dei beneficiari in funzione della loro appartenenza alla categoria dei successori indicata nel contratto, non incidendo sulla fonte del diritto (che, come si è detto, è l’atto inter vivos). Peraltro, la individuazione dei soggetti designati – seppure va compiuta necessariamente al momento della morte dell’assicurato – non postula che i medesimi si identifichino, come invece sostenuto in sentenza, con coloro che siano effettivamente chiamati all’eredità: nell’ipotesi in cui siano individuati con riferimento alla categoria degli eredi legittimi, gli stessi sono da identificarsi con coloro che in astratto, seppure con riferimento alla qualità esistente al momento della morte, siano i successibili, e ciò indipendentemente dalla effettiva vocazione e anche se poi interviene una successione testamentaria; questa Corte ha precisato che quando la designazione sia avvenuta con il contratto di assicurazione, che è stato stipulato in epoca anteriore alla redazione del testamento, la volontà negoziale va correttamente interpretata, ritenendo che i beneficiari dovessero identificarsi negli eredi ab intestato, così da escludere rilevanza alla successiva istituzione testamentaria dell’attrice (odierna ricorrente), quale erede universale: infatti, “deve negarsi che, in difetto di alcun riferimento alla designazione formulata nel contratto, tale disposizione testamentaria possa di per se sola integrare univoca manifestazione di volontà di revoca, anche tacita, della (ovvero che sia incompatibile con la) designazione avvenuta nel contratto di assicurazione”, atteso che, per quel che si è detto, il diritto azionato dall’attrice trova fonte nel contratto di assicurazione stipulato dal(la) de cuius a favore dei terzi ivi indicati e pertanto, al momento della morte dell’assicurata, non rientra nel patrimonio ereditario”.

La domanda giudiziale inammissibile è idonea ad interrompere la prescrizione?

ecco il nostro intervento

 Con la sentenza n. 29609 dd. 16.11.2018 la Corte di Cassazione, facendo seguito alle precedenti pronunce nn. 1516/2016 – SS.UU. -, 23017/2012 e 24808/2005, ha ribadito quanto segue:

“il principio sancito dall’art. 2945, comma 2, c.c., secondo cui l’interruzione della prescrizione determinata dalla proposizione della domanda giudiziale si protrae fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio, trova [omissis] deroga soltanto nel caso di estinzione del processo, e resta pertanto anche applicabile anche nell’ipotesi in cui detta sentenza […] si sia limitata a definire eventuali questioni di carattere pregiudiziale, purché essa sia stata pronunciata nell’ambito di un rapporto processuale della cui esistenza le parti siano a conoscenza [omissis]”

Nel caso dal quale è scaturita la sopraccitata pronuncia dei giudici di legittimità, nello specifico, parte attrice aveva instaurato un giudizio volto ad ottenere il risarcimento del danno patito per occupazione illegittima di immobile. In fase di impugnazione, successiva alla sentenza di primo grado, gli attori avevano per la prima volta formulato in via subordinata domande di determinazione delle indennità di occupazione ed espropriazione, dichiarate inammissibili in quanto nuove.

In tale contesto, la Suprema Corte ha non solo ritenuto che l’atto d’appello avesse esplicato efficacia interrutiva dei termini prescrizionali anche in ordine proprio a quelle domande dichiarate inammissibili all’esito della fase di gravame, ma ancor più significativamente che tale efficacia non fosse meramente istantanea, ma ricadesse nell’ambito applicativo dell’art. 2945, comma 2, c.c..

Secondo la posizione della Corte, infatti, l’effetto interruttivo permanente disciplinato da tale norma deve essere riconosciuto anche alla domanda dichiarata inammissibile, posto che la relativa dichiarazione di inammissibilità presuppone in ogni caso una pronuncia giudiziale idonea a passare formalmente in giudicato e, correlativamente, una difesa attiva della controparte, che dunque si presuppone sia pienamente edotta della volontà dell’attore di azionare il diritto oggetto della domanda.

La sentenza in parola pare perfettamente coerente con i principi cardine dell’impianto processualistico e, segnatamente, con la finalità e la ratio dell’art. 2945 c.c.. Si ritiene, peraltro, che un’importante eccezione possa darsi nel caso in cui la domanda attorea sia dichiarata inammissibile (rectius, radicalmente nulla) qualora ricorra l’ipotesi disciplinata dall’art. 164, comma 4, c.p.c.:

La citazione è altresì nulla se è omesso o risulta assolutamente incerto il requisito stabilito nel numero 3) dell’articolo 163 ovvero se manca l’esposizione dei fatti di cui al numero 4) dello stesso articolo.

Un vizio afferente l’editio actionis, ad avviso di chi scrive, renderebbe infatti impossibile ritenere soddisfatto quel requisito di conoscibilità dell’altrui diritto fatto valere in giudizio, ritenuto elemento determinante dalla Suprema Corte di Cassazione nella sentenza n. 29609/2018 qui riportata. Tanto è vero che un’eventuale integrazione o rinnovazione, rilevato il vizio di cui all’art. 164, comma 4, c.p.c., per espressa previsione legislativa contenuta nel seguente comma 5 avrebbe efficacia sanante ex nunc e lascerebbe, dunque, ferma ogni prescrizione o decadenza nel frattempo intervenuta.

In conclusione, si ritiene che la domanda giudiziale inammissibile possa essere ritenuta idonea ad interrompere la prescrizione con effetto interruttivo permanente sino al passaggio in giudicato della sentenza che ne ha sancito l’inammissibilità. Qualora, tuttavia, la declaratoria di inammissibilità/nullità sia il portato dell’applicazione dell’art. 164, comma 4, c.p.c. (evidentemente, senza che la parte che agisce in giudizio abbia proceduto a idonea integrazione o rinnovazione della domanda), la domanda stessa non esplicherà, pacificamente, alcuna efficacia interruttiva nemmeno ad effetto istantaneo.

Danno biologico di lieve entità, presupposti di risarcibilità: la Cassazione torna sull’argomento

 

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Con ordinanza n. 22066 dd. 11.09.2018 la Suprema Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi su un tema assai dibattuto in materia di danno biologico c.d. di lieve entità e, in particolare, sui limiti di applicazione delle previsioni contenute nell’art. 32, commi 3ter e 3quater del d.l. n. 1/2012, convertito in legge n. 27/2012. Prima di passare all’analisi di tale pronuncia, si ritiene opportuno affrontare un breve excursus del travagliato percorso legislativo, interpretativo ed applicativo delle succitate norme. Come noto, le disposizioni in commento prevedono quanto segue:

3- ter. Al comma 2 dell’articolo 139 del codice delle assicurazioni private di cui al decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, è aggiunto, in fine, il seguente periodo: ” In ogni caso, le lesioni di lieve entità, che non siano suscettibili di accertamento clinico strumentale obiettivo, non potranno dar luogo a risarcimento per danno biologico permanente“.

3- quater. Il danno alla persona per lesioni di lieve entità di cui all’articolo 139 del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, è risarcito solo a seguito di riscontro medico legale da cui risulti visivamente o strumentalmente accertata l’esistenza della lesione.

Le norme, che certa parte della dottrina riconduce ad un piano di applicazione più processuale (ritenendole relative in senso stretto alla prova del danno di cui si chiede ristoro) che sostanziale, furono accompagnate sin dalla fase di elaborazione legislativa da alcune annotazioni che, pur estremamente succinte, ne coglievano possibili profili di criticità. Lo stesso Servizio Studi della Camera dei Deputati non mancava di osservare quanto segue:

Al riguardo si ritiene opportuno un chiarimento della portata delle disposizioni, considerando che le due norme presentano un campo di applicazione comune, ma sembrano contenere profili contradditori. Infatti, mentre il comma 3- ter esclude il risarcimento del danno biologico “ permanente” nel caso in cui le lesioni non siano suscettibili di “accertamento clinico strumentale obiettivo”, il comma 3- quater ammette il risarcimento (senza specificare se a titolo di danno biologico permanente o temporaneo) qualora vi sia un riscontro medico legale da cui risulti “ visivamente” o strumentalmente accertata l’esistenza della lesione.

 

Criticità applicative ed interpretative che portavano financo ad investire la Corte Costituzionale della questione di legittimità delle norme in commento, in relazione specificamente agli articoli 3, 24 e 32 della Costituzione: il possibile vulnus veniva individuato per quei «piccoli danni che non possono essere oggetto di riscontri diagnostici strumentali, bensì solo di un giudizio medico di plausibilità ed attendibilità, senza possibilità […] di una conferma strumentale». Con ordinanza n. 242/2015, dunque, la Corte facendo seguito alla precedente sentenza n. 235/2014 dichiarava manifestamente infondata la questione e fissava alcuni principi importanti, chiarendo sempre dalla prospettiva della legittimità costituzionale come, da un lato, la necessità di un riscontro strumentale dovesse essere esclusa per i danni temporanei e richiesta solo per quelli a carattere permanente e, dall’altro, come:

la limitazione imposta al correlativo accertamento (che sarebbe altrimenti sottoposto ad una discrezionalità eccessiva, con rischio di estensione a postumi invalidanti inesistenti o enfatizzati) è stata, infatti, già ritenuta rispondente a criteri di ragionevolezza, in termini di bilanciamento, «in un sistema, come quello vigente, di responsabilità civile per la circolazione dei veicoli obbligatoriamente assicurata, in cui le compagnie assicuratrici, concorrendo ex lege al Fondo di garanzia per le vittime della strada, perseguono anche fini solidaristici, e nel quale l’interesse risarcitorio particolare del danneggiato deve comunque misurarsi con quello, generale e sociale, degli assicurati ad avere un livello accettabile e sostenibile dei premi assicurativi».

In tale contesto i Tribunali di legittimità hanno, seppur con qualche voce discordante, assunto una posizione che pare ben riassunta nella sentenza dd. 08.01.2015 del Tribunale di Bologna. È quindi stato osservato che:

Secondo la migliore scienza medico-legale, vi è evidenza visiva o strumentale di un danno anatomico, in tutti quei casi in cui, anche in assenza di reperti visivi o strumentali, l’analisi medico-legale porta comunque a ritenere “evidente” il ricorrere di una patologia traumatica; tale evidenza non sussiste quando le mere allegazioni di soggettività e/o le prime certificazioni redatte a distanza di tempo dal sinistro, al vaglio medico-legale risultano non compatibili con quel sinistro, attestando lesioni che la violenza dell’urto, per la sua irrisorietà, non può giustificare.

Si può concludere quindi che, ove l’analisi medico-legale di cui sopra riscontri positivamente la lesione denunciata, l’accertamento della lesione del bene salute e dei pregiudizi consequenziali non è presunto sulla base di mera sintomatologia soggettiva, ma è verificato obiettivamente in contraddittorio tra tutte le parti ed i loro consulenti, non lasciando spazio a facili narrazioni e/o simulazioni da parte della (falsa) vittima.

Nello stesso solco, il Tribunale di Ascoli Piceno ha recentemente (sentenza dd. 14.11.2017) statuito che:

In altri termini, la novella in esame ha inteso chiarire che la lesione alla salute può essere provata – anche mediante presunzioni, in base alle ordinarie norme codicistiche – “visivamente o strumentalmente“, non essendo più ammissibile desumere tale prova soltanto dalla sintomatologia della vittima. In altri termini si è stabilita la regola per cui la presunzione fornita in giudizio è grave e precisa allorché sia stata accertata la lesione alla salute visivamente o strumentalmente.

Per tale via, dunque, secondo la migliore scienza medico legale, vi è evidenza visiva o strumentale di un danno fisico allorché – anche in assenza di reperti visivi o strumentali, l’analisi medico-legale porta comunque a ritenere ” evidente” il ricorrere di una patologia traumatica.

Ad avviso dello scrivente, le succitate pronunce vanno incontro a profili di criticità che, va evidenziato, sono il portato di una formulazione legislativa tutt’altro che cristallina. In primo luogo, si ritiene che con la succitata sentenza il Tribunale di Bologna abbia confuso due piani in realtà ben distinti, e cioè da un lato l’«evidenza visiva o strumentale» richiesta per l’accertamento del danno biologico e dall’altro la compatibilità di tale danno con l’evento dedotto in causa. Quest’ultimo profilo, infatti, attiene in prima battuta la sussistenza di un nesso causale tra il danno e il fatto e non già, quindi, l’accertamento e la successiva conseguente valutazione di quel danno.

In secondo luogo, entrambe le succitate pronunce pongono sul medesimo piano i criteri scientifici di accertamento clinico-strumentale-visivo, attingendo indifferentemente e senza alcuna gerarchia né ordine predefinito all’uno o all’altro. Invero, si ritiene che mentre i primi (clinico-strumentale) afferiscano per esplicita volontà del legislatore il solo danno permanente, il secondo (visivo) riguardi sì il danno permanente, rappresentandone di fatto un elemento valutativo ultroneo che per certo non si sostituisce ai primi due, ma attenga in via ulteriore e precipua il danno temporaneo, costituendone in questo caso un presupposto di risarcibilità e valutazione differente ed alternativo rispetto a quelli clinico e strumentale. Tale interpretazione è suffragata dalla stessa Corte costituzionale che, con la sentenza n. 235/2014 già sopra richiamata, sull’art. 32, commi 3ter e 3quater esponeva quanto segue:

Tali nuove disposizioni – [omissis] – rispettivamente comportano, per tali lievi lesioni:

− la necessità di un “ accertamento clinico strumentale” (di un referto di diagnostica, cioè, per immagini) per la risarcibilità del danno biologico permanente;

− la possibilità anche di un mero riscontro visivo, da parte del medico legale, per la risarcibilità del danno da invalidità temporanea.

Se dunque in entrambe le citate sentenze di merito si fa riferimento ad un’interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni di cui qui si discute, al contempo si ritiene che un’attenta e puntuale interpretazione del dettato normativo dovrebbe in realtà condurre ad una differenziazione dei presupposti di accertamento e valutazione del danno biologico tra permanente e temporaneo, nel senso di cui si è appena dato conto.

La recente sentenza n. 22066/2018 della Corte di Cassazione richiamata in esordio di questo intervento, facendo seguito ad altre pronunce di contenuto simile, introduce ulteriori spunti, fissando principi applicativi e di interpretazione di indubbio interesse. La Suprema Corte ha infatti enucleato come:

[omissis] l’accertamento clinico strumentale obiettivo non potrà in ogni caso ritenersi l’unico mezzo probatorio che consenta di riconoscere tale lesione a fini risarcitori, a meno che non si tratti di una patologia, difficilmente verificabile sulla base della sola visita del medico legale, che sia suscettibile di riscontro oggettivo soltanto attraverso l’esame clinico strumentale.

Ed ancora:

[omissis] alla stregua di tale principio, cui il Collegio intende dare continuità, deve dunque ritenersi che, ferma restando la necessità di un rigoroso accertamento medico-legale da compiersi in base a criteri oggettivi, la sussistenza dell’invalidità permanente non possa essere esclusa per il solo fatto che non sia documentata da un referto strumentale per immagini, sulla base di un automatismo che vincoli, sempre e comunque, il riconoscimento dell’invalidità permanente ad una verifica di natura strumentale.

La Corte di Cassazione ha dunque chiarito, tra l’altro, come ai fini dell’accertamento di una lesione all’integrità psico-fisica ci si debba attenere a rigorosi ed oggettivi criteri medico-legali, senza tuttavia che sia richiesto un referto strumentale per immagini. A sommesso avviso dello scrivente, tale principio pare condivisibile solo laddove, secondo una riconosciuta e condivisa prassi medico-legale nella quale per evidenti ragioni non ci si addentra, possa ipotizzarsi un accertamento strumentale che non sia, per l’appunto, «per immagini». Qualora invece non possa darsi altro accertamento strumentale se non quello per immagini, si ritiene che l’interpretazione fatta propria dalla Suprema Corte conduca di fatto ad una sostanziale disapplicazione dell’art. 32, comma 3ter del d.l. n. 1/2012, convertito in legge n. 27/2012. Il richiamo che la sentenza in commento opera della precedente pronuncia n. 1272/2018 della Suprema Corte farebbe propendere, in realtà, proprio per questa seconda possibilità. Ed infatti la Cassazione si era già sul punto così espressa:

Il rigore che il legislatore ha dimostrato di esigere – che, peraltro, deve caratterizzare ogni tipo di accertamento in tale materia – non può essere inteso, però, come pure alcuni hanno sostenuto, nel senso che la prova della lesione debba essere fornita esclusivamente con l’accertamento clinico strumentale;[omissis] infatti, è sempre e soltanto l’accertamento medico legale svolto in conformità alle leges artis a stabilire se la lesione sussista e quale percentuale sia ad essa ricollegabile. E l’accertamento medico non può essere imbrigliato con un vincolo probatorio che, ove effettivamente fosse posto per legge, condurrebbe a dubbi non manifestamente infondati di legittimità costituzionale, posto che il diritto alla salute è un diritto fondamentale garantito dalla Costituzione e che la limitazione della prova della lesione del medesimo deve essere conforme a criteri di ragionevolezza.

Nella sostanza, quindi, secondo l’orientamento allo stato maggioritario sia nella giurisprudenza di merito (di cui si sono sopra citate due pronunce tra le molte di simile contenuto) che di legittimità, ai fini dell’accertamento della lesione dell’integrità psico-fisica, nonché della successiva e conseguente valutazione del danno, i criteri scientifici clinico-strumentale-visivo debbono essere intesi in via paritaria ed alternativa, con una commistione dei piani applicativi degli art. 32, commi 3ter e 3quater, pur dichiaratamente distinti tra danno permanente danno temporaneo. Si ritiene, d’altro canto, che la richiamata necessità di un accertamento medico legale svolto in conformità alle leges artis e non già quello di un esame clinico-strumentale conduca come accennato ad una sostanziale disapplicazione delle norme in commento, difficilmente motivabile sulla scorta di un potenziale profilo di illegittimità costituzionale che la stessa Corte costituzionale ha esplicitamente escluso.

Pare dirimente, in conclusione, rammentare come la valutazione circa l’antigiuridicità di un fatto e la meritevolezza di una tutela risarcitoria del danno che ne può conseguire, qualora coerenti con l’impianto costituzionale del nostro ordinamento, costituiscano scelte prettamente ed esclusivamente legislative. Rimane certamente, ad avviso di chi scrive, un contesto nel quale la non felice formulazione delle norme in commento non è stata e non è d’ausilio per gli operatori del diritto: circostanza, questa, che imporrebbe un ulteriore intervento riformatore, posto che la recente introduzione della legge n. 124/2017 non ha per certo gettato nuova luce sulla questione.

Surroga Inail e differenziale: note a margine di Cass. 21961/18 e Finanziaria 2019

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Con la sentenza n. 21961 dd. 10.09.2018, la Corte di Cassazione è intervenuta a chiarire i presupposti e i limiti dell’azione di surrogazione di cui è titolata l’Inail nei confronti del responsabile civile.

I giudici di legittimità hanno innanzitutto descritto i tipi di danno suscettibili d’indennizzo da parte dell’assicuratore sociale, ricordando che

“L’Inail indennizza due tipi di danno, il danno biologico, sotto forma di rendita, ai sensi dell’art.  13 del decreto legislativo 23 febbraio 2000, n. 38 e il danno patrimoniale nei seguenti profili: la riduzione della capacità di guadagno (che la legge, ai fini dell’assicurazione sociale, presume juris et de jure quando l’invalidità biologica sia superiore al 16 per cento e viene liquidata); la perdita del salario durante il periodo di assenza per malattia (che l’Inail indennizza col pagamento d’una indennità giornaliera pari al 60 per cento della retribuzione, ai sensi dell’art.  68, comma primo, d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124); le spese sanitarie (che l’Istituto è tenuto ad anticipare ai sensi degli artt.  86 e ss. d.P.R. n. 1124cit.).”

Osservano quindi che il primo dei tre pregiudizi patrimoniali, ossia la riduzione della capacità di guadagno, siccome presunta juris et de jure, è

“indennizzato dall’Inail anche quando la vittima dell’infortunio non abbia patito, o non abbia dimostrato di avere patito, alcun pregiudizio da lucro cessante derivato dalla perdita della capacità di lavoro e di guadagno; l’incremento della rendita, infatti, viene erogato dall’Inail senza alcun accertamento concreto circa l’esistenza d’un danno patrimoniale, che la legge – nell’ottica compensativa tipica dell’assicurazione sociale – presume esistente juris et de jure quando l’invalidità permanente sia superiore al 16 per cento.”

Ne consegue, coerentemente, che – a differenza dell’indennità giornaliera e delle spese mediche, che l’Inail riconosce al lavoratore assicurato solo quando questi effettivamente si assenti dal lavoro o sostenga costi per le cure – al contrario

“l’accoglimento della domanda di surrogazione dell’Inail, per gli importi pagati a titolo di incremento della rendita per danno patrimoniale presunto, presuppone l’accertamento che la vittima abbia effettivamente patito un danno civilistico alla capacità di lavoro, in assenza del quale nessuna surrogazione sarà possibile.”

Senza tale dimostrazione, infatti, il surrogante non porterebbe alcuna prova a dimostrazione del danno patito dal surrogato, in luogo del quale pretende la ripetizione delle somme.

La condivisibile logica della pronuncia in esame collide potenzialmente con la posizione cristallizzata dalla Corte in pronunce di poco precedenti, tra cui si cita l’ultima (Cass. Civ., 21.11.2017, n. 27669, che si adegua alle istruzioni del dott. Rossetti contenute in ord. 30.08.2017, n. 17407), stando alle quali

“in tema di liquidazione del danno biologico c.d. differenziale, di cui il datore di lavoro è chiamato a rispondere nei casi in cui opera la copertura assicurativa INAIL in termini coerenti con la struttura bipolare del danno-conseguenza, va operato un computo per poste omogenee, sicché, dall’ammontare complessivo del danno biologico va detratto, non già il valore capitale dell’intera rendita costituita dall’INAIL, ma solo il valore capitale della quota di essa destinata a ristorare, in forza dell’art. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000, il danno biologico stesso, con esclusione, invece, della quota rapportata alla retribuzione ed alla capacità lavorativa specifica dell’assicurato, volta all’indennizzo del danno patrimoniale (v. Cass. lav. n. 20807 del 14 ottobre 2016).”

Il punto di potenziale collisione giace nell’osservazione che, laddove correttamente si ritenga di non dar seguito alla surrogazione dell’Inail per voci civilisticamente non sussistenti, nella complementare liquidazione del differenziale in favore del lavoratore danneggiato colui che non abbia patito alcun danno patrimoniale alla capacità di lavoro otterrebbe lo stesso trattamento di colui che lo avesse invece patito in misura tale da assorbire economicamente la quota patrimoniale della rendita Inail.

Non deve sfuggire, a riguardo, che uno dei cardini che sorreggono la teoria dello scomputo posta per posta è proprio il fine di evitare una (in realtà mai sino in fondo dipanata) differenza di trattamento tra vittima- lavoratore dipendente e vittima-lavoratore non dipendente. Differenza che, in realtà, proprio il danno differenziale annulla civilisticamente.

Al contrario, come visto e in maniera più evidente e grave, la sottrazione voce per voce è potenzialmente foriera di una disparità di trattamento tra vittime del sinistro che, quali lavoratori dipendenti, condividono la medesima situazione di fatto e diritto.

Si deve poi tener conto dello scardinamento del secondo puntello di questa regola di scomputo. Questo secondo cardine è costituito, come si ricorderà, dall’addotta differente finalità tra indennità sociale e risarcimento civilistico, differenza che consentirebbe il cumulo tra i due importi.

Tuttavia, tale teoria pare mal conciliarsi sia con il dettato dell’art. 13 d.lgs. 38/2000, sia col principio indennitario, stando al quale il trasferimento del rischio (in questo caso, dal lavoratore all’Inail) non può costituire fonte di lucro per il lavoratore in quanto l’indennizzo deve svolgere unicamente la funzione di riparare il danno subito dall’assicurato.

A chiarire definitivamente il quadro è ora intervenuta la Finanziaria 2019, che all’art. 10 dPR 1124/1965 ha introdotto con un nuovo comma la regola che

“non si fa luogo a risarcimento qualora il giudice riconosca che questo, complessivamente calcolato per i pregiudizi oggetto di indennizzo, non ascende a somma maggiore dell’indennità che a qualsiasi titolo ed indistintamente, per effetto del presente decreto, è liquidata all’infortunato o ai suoi aventi diritto”,

smentendo così a livello legislativo il secondo cardine su cui regge(va) la regola dello scomputo per poste omogenee.